Il critico
Vagabondando un po’ tra le cose musicali un grande linguista del passato, Louis Hjelmslev, diceva che i suoni (lui li chiamava “note”) sono come una distesa di sabbia: materia pura, inerte e brutale senza forma e senza sostanza. Soltanto quando la mano della forma si posa sulla sabbia e lascia la sua impronta, soltanto in quel momento si disegna sulla superficie dei suoni indistinti la vera e autentica sostanza del suono, del suono organizzato. Insomma la musica. La musica, come del resto la lingua, nasce quando la rete della forma s’imprime sulla materia, facendone emergere la sostanza.
Nel pensiero musicale di Alessio Elia, e nella prassi compositiva che ne consegue, mi sembra di rintracciare una impronta (appunto…), sia pure inconsapevole, della classica tripartizione (materia, forma, sostanza) che costituisce il cuore della glossematica, la teoria esposta da Hjelmslev nei Fondamenti di una teoria del linguaggio. La materia sonora, ossia il suono nella sua disposizione non articolata nel tempo, è senz’altro, per ciò che si può capire, il terreno privilegiato della ricerca di Elia. Ogni opera, incluse quelle che ascolteremo questa sera, poggia fortemente le sue radici nella dimensione fisica, percettiva del suono. Il compositore si pone nei confronti della materia come un “fisico del suono”, prima ancora che un musicista, che rileva analiticamente i caratteri “materiali” dell’universo sonoro di partenza: densità, rarefazione, intensità, timbro, frequenza, colore. Su questo materiale sonoro, peculiare, specifico, irripetibile in ogni opera, insomma su questa sabbia primordiale, il compositore (non più il fisico) imprime la rete delle proprie figure formali: ad esempio la tecnica ricorrente della scordatura “analitica” degli strumenti ad arco, l’uso delle corde vuote, la determinazione delle altezze data dal ricorso ai glissandi di armonici, la frequenza degli “ostinato”, la tendenza a privare i suoni del loro contesto spazio temporale rendendoli micro universi autosufficienti, la tessitura meticolosa di trame micropolifoniche di abbacinante nitore.
La conformazione specifica di queste figure non possiede, è bene precisarlo, alcuna prepotente gestualità, non si offre cioè come segno drammatico di una imperiosa e soggettiva “volontà di comporre”. Tutt’altro. Ogni stringa formale sembra generata, al contrario, senza alcuna frattura, dal carattere del materiale sonoro di partenza. L’impronta della mano sulla sabbia, in altre parole, non dipende dalla volontarietà del gesto, bensì dalla conformazione del terreno sul quale la sabbia è posata. Proprio per questo motivo la sostanza dell’espressione e la sostanza del contenuto (per ricorrere nuovamente alle categorie di Hjelmslev) assumono nelle opere di Elia, a dispetto del carattere apparentemente complesso delle impronte formali, una sorprendente e fluida naturalezza, una perfetta aderenza, insomma, tra il materiale sonoro di partenza e la sua trasformazione in sostanza linguistica.
La causa efficiente di questa linearità non narrativa, di questa organizzazione sonora non espressiva va forse ricercata in un altro tratto di pensiero che avvicina Alessio Elia alla ricerca linguistica di Hjelmslev: si legge nei Fondamenti che “la lingua non è un insieme di fenomeni non linguistici (fisici, fisiologici, sociologici…) bensì, al contrario, una totalità autosufficiente, un’entità autonoma da qualsiasi dipendenza esterna”. Allo stesso modo l’universo musicale sembra, per Elia, un sistema linguistico autoportante, che si sostiene sulla forza dei propri materiali e delle proprie trasformazioni, senza alcun bisogno di ricorrere a puntelli, a echi, a suggestioni che provengono dal contesto in cui la musica viene generata. Ciò attribuisce alle opere di Elia una inconsueta vibratilità, una astratta e straniata alterità che accumula e disperde, in una sorta di grande e continuo respiro, una inesauribile energia sonora. Non è dunque solo una suggestione o un semplice “programma” extramusicale il riferimento esplicito, in alcune opere, alla teoria delle stringhe. Quelle infinitesimali corde vibranti che costituiscono le più piccole particelle della materia e che generano l’energia dell’universo sembrano davvero i nuclei densi e primitivi dai quali si irradia il “suono di Elia”.
Guido Barbieri, critico, autore, storica voce programmi Radio 3